19 dic 2010

Roma, 14 dicembre online

In questi giorni, a seguito della manifestazione e scontri di Roma, sul web si è acceso un intenso e proficuo dibattito sull'efficacia delle diverse modalità di protesta.
Su Twitter e altri social network il dibattito è stato intenso e coinvolgente, sintomo di come non solo un evento di questo tipo fosse nell'aria ma anche atteso.
Carmilla e Dazieri[1] (solo per citare i primi due che ho letto) hanno commentato positivamente la reazione violenta degli studenti a Roma, elogiandone la capacità di reagire e, soprattutto, di agire.

Il 16 compare su Repubblica una lettera di Saviano ai ragazzi del movimento che, sotto molti punti di vista, ha agito come spartiacque nel dibattito.
Lo si nota ad esempio nelle reazioni di Evangelisti o di Dazieri[1] ed in particolare sulla virata del dibattito sui commenti ad un precedente post su Giap e nella forte risposta a Saviano da parte degli studenti napoletani.

Questo lo stato delle cose ad oggi, dal mio punto di vista. Ovviamente personale e discutibile.
Il primo impulso che ho provato, di fronte alle immagini degli scontri, è stato di assoluta e completa vicinanza agli studenti (il mio primo pensiero è stato: "Finalmente anche in Italia cominciamo a svegliarci!") e ho molto apprezzato gli interventi in questa direzione.
Inutile dire che leggendo la lettera di Saviano ho provato un certo disappunto che ho subito interpretato come Evangelisti: Roberto frequenta ambienti troppo diversi e troppo lontani dalla piazza (certamente non per sua scelta!) e sta entrando nella logica di quegli ambienti.
Non pensavo solo ed in particolare alla sua scorta, ma alle sue recenti attività: spettacoli teatrali e televisivi a fianco di conduttori "cerchiobottisti", a editori, a direttori e responsabili di reti televisive e a politici.
E' inevitabile che cambiando il contesto in cui vive una persona cambi la sua prospettiva sul mondo. Lo stesso è successo alla sua scorta che, vivendo a stretto contatto con lui, ha stabilito un rapporto di amicizia e stima che sicuramente ha portato anche ad una revisione ideologica.
Non lo considero un fenomeno negativo a priori ma lo diventa quando un personaggio simbolo (che smette di essere persona) esprime opinioni così pesanti su un fenomeno che dalle sue parole sembra aver osservato e giudicato da una grande distanza non tanto fisica quanto culturale. Mi ha stupito leggere da lui frasi che erano pressoché equivalenti a quelle di La Russa la sera stessa ad Annozero.

Questo è stato il mio primo impulso, sicuramente dettato da una forte rabbia (meglio: esasperazione) verso un governo e verso un sistema di potere che ha tutte le connotazioni culturale ed ideologiche di un regime.
Che poi non usi (non sempre, almeno) i tipici "strumenti tradizionali"[2] dei regimi cambia ben poco: ciò che lo definisce come regime è la sua incapacità di comprendere l'altro, ciò che è diverso o in contrapposizione con esso. Ignorandolo quando si prostra, attaccandolo quando mostra la minima volontà di agire autonomamente.

Poi la rabbia si mitiga, si torna a riflettere più lucidamente e si parla con altri, in particolare con persone "comuni", fuori dai circoli del web e che si informano tramite televisioni e giornali. Lì casca l'asino: nella percezione di queste persone gli avvenimenti di Roma son stati criminali, fomentati da pochi fanatici e gli studenti stupidi a seguirli.
Ovviamente l'asino son io: mi aspettavo che almeno chi professa quotidianamente il suo disprezzo, o almeno disagio, verso questo governo fosse più propenso ad accettare una reazione forte. Non è così e basta leggere i commenti (banali e superficiali quanto si vuole ma indice di un sentire diffuso) nei giornali generalisti o sui social network più di massa per constatarlo.

Credo sia utile a questo punto valutare se e quanto questi eventi hanno giovato al movimento studentesco e, più in generale, a tutte le forze alternative.
Se da un lato credo che reazioni così forti possano essere salutari, come un febbre che aiuta ad eliminare i patogeni dal corpo, dall'altro non posso ignorare né il mio orientamento pacifista né il contesto sociale e culturale in cui questi eventi si svolgono.
Queste considerazioni vanno ponderate con due fattori che non possono essere ignorati:
- viviamo in un paese in cui il peso della comunicazione è fortemente spostato verso i media televisivi, di fatto controllati da pochi;
- la violenza suscita, a priori, sdegno e repulsa in tutti coloro che non ne conoscono le cause e le dinamiche.
Quindi, valutando il contesto, chiedo: la reazione violenta è efficace? E' morale?

Quando ho scelto la strada del pacifismo e della non violenza mi sono posto le stesse domande: la non violenza è efficace? E' morale?
Non vorrei dilungarmi sulla questione morale, che meriterebbe ben altri approfondimenti, e la liquido affermando che, se non è tautologico dire che la non violenza rappresenta un cambiamento radicale e rivoluzionario, così la violenza nutre le stesse radici che sostengono l'albero dell'autorità, delle gerarchie e della prevaricazione.
Mi interessa di più riflettere sull'efficacia della non violenza e sulle condizioni per concretizzare questa efficacia.
La non violenza necessità di alcuni principi inevitabili:
- coraggio e onestà, di chi intraprende il percorso;
- unità, fra chi partecipa ad un'azione;
- sostegno, da parte di chi assiste all'azione.
Semplificando fin quasi al banale: l'agire non violento deve essere intrapreso con convinzione, esaminando lucidamente le cause della violenza e progettando su tempi lunghi la sua eliminazione, diffondendo il più possibile le proprie idee, obiettivi, speranze in modo da coinvolgere nell'azione anche la popolazione che, per natura o interesse, tendenzialmente se ne disinteresserebbe.

In un precedente post ho parlato dei partigiani: non hanno forse trovato sostegno e aiuto nella popolazione, esasperata dalle violenze del nazifascismo?
Sarebbero riusciti non tanto a vincere ma anche solo a sopravvivere senza questo aiuto? E il discorso si può estendere a tutte le forme di lotta, pacifica o meno, che hanno ottenuto dei risultati concreti, per quanto troppo spesso solo temporanei (la violenza ottiene risultati duraturi ma che si trasformano sempre nella copia speculare di ciò che essa voleva combattere).

La non violenza non è un'utopia ma un progetto a lunga scadenza.
Se oggi lottiamo con rabbia contro delle riforme assurdamente distruttive dovremmo chiederci: era possibile evitare di arrivare a questo punto?
Oggi ha senso lottare e forse la lotta violenta è l'unico modo rimasto. Non voglio giudicare le considerazioni e conclusioni di chi attua delle scelte in un ambiente dal quale sono da anni lontano, anche se non è estraneo.
Mi chiedo solo: non possiamo oggi lottare pacificamente per far sì che un domani non ci sia più bisogno di lottare con violenza?
Sono convinto di sì.
Se i problemi sono quelli elencati: culturali, di informazione, di partecipazione, come possiamo oggi fare in modo da creare una società più partecipe, unita, coinvolta e informata?
Credo che gli strumenti non manchino ma che siano volutamente limitati da chi detiene il potere: diffusione della banda larga, libertà di informazione, formazione e cultura per le fasce disagiate della popolazione (basti pensare agli anziani che influenzano pesantemente il voto e che molto raramente conoscono fonti di informazione diverse dalla televisione).
Lottare per un'istruzione gratuita (dovesse anche essere privata, anche se così si apre il dibattito su "chi paga per cosa"), per la diffusione di strumenti di informazione più semplici, a basso costo, eterogenei, per il coinvolgimento diretto di tutte le componenti sociali tramite canali non mediati e adatti alle esigenze dei partecipanti.
Senza cadere in certi "qualunquismi grillini" ritengo sia non solo possibile ma anche indispensabile identificare i fattori che sostengono l'attuale regime e capire come aggirarli, se non eliminarli. Autonomia culturale e produttiva/lavorativa, federalismo (nell'accezione anarchica, non in quella -becera- leghista), interazione con l'ambiente, comunicazione sono argomenti di cui si discute da secoli ma solo oggi abbiamo degli strumenti concreti e (relativamente) semplici che ci permettono di realizzarla.
Resta un ultimo gradino da superare: renderli non solo potenzialmente utilizzabili ma anche concretamente applicabili. Sostenere le forme aziendali che evitano la logica del capitale e del profitto, liberarsi dalle autorità culturali, creare nuove relazioni tra conoscenza, tecnologia e società, valutare il progresso (qualitativamente e in riferimento ai limiti naturali) e la sua applicabilità ai contesti locali.
Chiedersi: ha senso? E se il senso sembra mancare cercare le falle nelle sue fondamenta.

Queste e molte altre (vorrei ritornare sull'argomento) sono lotte che, qui e ora, sono fattibili e possono concretizzare una società migliore, più libera e aperta. Fosse anche tra dieci anni ma senza costanza e coerenza non ci sarà mai un cambiamento: se oggi lottiamo per decisioni che son già state prese siamo destinati alla sconfitta, se lottiamo per realizzare idee che il regime ancora non sa pensare né intuire, possiamo vincere.
Può essere l'occasione e il momento adeguato per iniziare a lottare non solo per uno risolvere uno specifico problema ma per proporre un futuro migliore. Senza limitarsi a teorizzarlo ideologicamente ma progettandolo concretamente nelle sue componenti.
Ne abbiamo gli strumenti ed energia e volontà, come s'è visto, non mancano.


note:
[1] il giorno 17, su Twitter, scrive: "mi sembra più importante quello che dice Maroni sugli studenti oggi, che quello che ha detto Saviano ieri".
[2] tortura, omicidi, sparizioni, incarcerazioni e omicidi senza processo, eliminazione delle opposizioni (qui da noi si stanno eliminando da sole)...